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UN POETA SI
CONFESSA
Estratto dalla
Rivista “IL FUOCO” n. 4
Anno Ventottesimo: Ottobre
- Dicembre 1981
00152 Roma
- Via Giacinto Carini 28
- Tel. 5810969
UN POETA SI CONFESSA
Per certi aspetti
« Il Fuoco
»
mi rammenta
« Il Frontespizio »: ci trovo citati i
collaboratori di quella stessa rivista e presenti cari amici come Marcello
Camillucci.
« Il Fuoco
»
dura tuttavia da ventinove anni, la pubblicazione
di Piero Bargellini morì invece adolescente: un’adolescente forse fin troppo
adulta. Nata nel 1930, alla fine del 1940 scompariva. Spariva lasciando in tutti
nostalgia e rimpianto. C’è chi ha scritto della ricchezza dei suoi contenuti,
chi ne ha fatto la storia a confronto con altre riviste di quel tempo, quali
«Campo di Marte
»
e
« Letteratura»; io dirò invece della gioia
di ritrovarmi a Firenze con Bargellini e Nicola Lisi. Ci ritornavo con tutto
l’entusiasmo giovanile, essendoci cresciuto, come per ritrovare il monello che
fui per le sue belle strade assolate, quando mio padre era ferroviere, a Rifredi.
A quel tempo
— al tempo del Frontespizio
— Bargellini non era il sindaco di
Firenze, né il Bargellini dei trionfi in America dopo le inondazioni dell’Arno,
né l’assessore alle Belle Arti
— il Bargellini
« panche e pini
»
come lo soprannominavano gli amici
—
ma giovane sui trentatrè anni, l’arbiter elegantiarum, la nostra
guida, il direttore, l’animatore del Frontespizio. Vestito con la massima
eleganza, alto, sorridente, non mancava mai di qualche battuta fiorentina.
Lisi era di Scarperia: la sua statura non passava quella di un appiedato di
fanteria: arzillo sempre, tutto brio, anche se avviava a incanutire; era quello
che fiorentineggiava di più, infiorettando di
«
l
»
tutti i verbi:
« la sono
», «
la vanno
», «
la dicono» e via di questo passo. A volte, le sue
risate avrebbero rinvivito un morto. Aveva ammiratori e amici, tra questi Arrigo
Bugiani, che scriveva anche lui nel Frontespizio e aveva pubblicato per
Vallecchi «Festa dell’omo inutile »: ancora giovane, grassoccio, di carnagione
bionda, due occhi celesti di angelo in esilio, sembrava malato di mutismo: « Se
voglio bene a uno — diceva — bisogna che stia zitto! » Viveva, come me, in
Maremma, in proda al mare di Follonica. Quando il Lisi componeva i suoi libri,
me ne parlava: aveva fervida e devota fantasia. Il «Paese dell’anima », in quel
suo stile asciutto, sembrava scaturito dai Fioretti di S. Francesco; de « L’Arca
dei semplici» riteneva « La vacca acquatica» il racconto più originale: una
vacca che scappa di mano a Grisante, il contadino e finisce «vacca da bagnature»
in un fiume, con una gran visciaia di pesci grossi e piccini dietro.
Per quanto mi riguarda, se ho continuato a far poesie, lo devo anche al
Frontespizio. Mi sembrava, con la collaborazione a quella rivista, di aver preso
un impegno con me stesso, con quanti avevano scritto, scrivevano e avrebbero
scritto poesia. Per la disistima, tuttavia, che ho sempre avuto della mia poesia
e anche per timore di un rifiuto, non ho mai cercato un grande editore. Le mie
raccoltine che chiamo di versi — L’aiuola di luce / Innocenza / Stagione
mattutina / Poesie giovanili / Tenerezza / Voci e lamenti / Già i colori di
autunno / Nocturnes pour Sainte Catherine de Sienne / Il canzoniere del
fanciullo / Pietà degli anni sterili / La raccolta del povero (non so se le ho
elencate tutte) — ad eccezione di Stagione mattutina e di Tenerezza edite da
Carabba di Lanciano, furono pubblicate da editori di poco e di nessun conto.
Ebbero tuttavia, qua e là, riconoscimenti e qualche premio, come Il canzoniere
del fanciullo, che ebbe il Premio Laura Orvieto, nel 1959.
Mi si chiede a questo punto: che cosa mi ha spinto e mi spinge a poetare e che
cosa mi preme comunicare con la poesia? Dirò: è perché mi sembra di essere a
colloquio con una persona vera!
Dante incontra Virgilio, incontra Beatrice, persone vere che altro non sono che
la Poesia, la quale, come fa Virgilio a Dante, mi rivela, di volta in volta,
paesaggi, aspetti, volti, colori che prima non conoscevo. Vorrei che la poesia
fosse, come fu per Dante, la purificazione , la catarsi dell’anima mia. Che se
Dante è miràbile nei tenebrosi gironi dei dannati e nei pallidi cerchi dei
purganti, è addirittura meraviglioso nel regno della luce quando scioglie la sua
preghiera alla Vergine Santissima.
Ognuno ha le sue opinioni: io resto nella convinzione che i più grandi poeti
siano i Santi: non dico del Poverello di Assisi e di San Giovanni della Croce,
ma di tutti i Santi.
Mi si fa notare il disinteresse per la mia poesia, perché non è moderna, non
legata a scuola, né a Ungaretti, né a Montale; non è, insomma, inserita in
nessun
clima. Sarà dipeso magari dal fatto che ho dovuto quasi sempre fare scuola di
Italiano e di Latino e per quanto Virgilio, Orazio, Cicerone si traducano nel
linguaggio più moderno, restano sempre autori antichi. Ma « sol nel passato il
bello sol nella morte il vero ».
Del resto, i versi “La morte si sconta vivendo” di Ungaretti non sono che la
traduzione di « quotidie morimur ».
C’è poi una voce antica costante nei secoli cristiani. Che Giovanni Paolo Il
parli ai fedeli in italiano o in latino o in francese o in polacco, la sua voce
di Vicario di Cristo e di successore del Pescatore di Galilea, è sempre antica.
Egli è il completamento del Vecchio e Nuovo Testamento: «Avete il Vecchio e
Nuovo Testamento — dice Dante — e il Pastor che vi guida, questo basti a vostro
salvamento ». Antico, porti o non porti la tonaca, rimane il sacerdote che
recita il breviario e che ripete all’altare « Questo è il mio Corpo! », « Questo
è il mio Sangue! » E, anche a ottant’anni: « Dio allieta la mia giovinezza! ».
Per chiudere e concludere, dirò che i miei poeti sono gli antichi e che i
preferiti restano Dante, Leopardi e... (parrà strano) Rainer Maria Rilke.
IDILIO DELL’ERA
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