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Ricordo di Idilio Dell’Era (1904-1988)
Quando il silenzio
Il testo che è stato rappresentato per commemorare il ventesimo anniversario della morte (1988-2008) Pieve di S.Giusto a Balli (Sovicille) Domenica 30 Novembre 2008 (ore 16,30)
Presentare Idilio Dell’Era, a vent’anni dalla sua morte, e a oltre un secolo dalla sua nascita, significa dover rendere conto della formazione umana, culturale e spirituale di uno dei più validi e prolifici scrittori del novecento toscano che ha lasciato nel corso della sua lunga vita di impegno letterario oltre 40 opere di poesia, narrativa, saggistica, agiografia e un archivio di manoscritti, presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, di notevole entità che attende ancora di essere sistemato, studiato e valorizzato adeguatamente. E’ un compito difficile e impegnativo anche perchè si deve tenere conto che la figura di Idilio Dell’Era è stata poco studiata in questi venti anni che ci separano dalla sua morte e non adeguatamente riconosciuta dalla critica ufficiale quando egli era ancora in vita. Bisogna inoltre considerare che la sua eredità rischia di essere lasciata inaridire anche nella Sua Toscana, regione da lui tanto amata ma dalla quale non ha ancora avuto il riconoscimento che si sarebbe potuto aspettare. A Idilio Dell’Era, autore di opere come “La mia Toscana” , “Leggende toscane” e dell’inno del Palio di Siena che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico,tributiamo dunque oggi tutti gli onori , anche di quei tanto toscani che ancora non lo conoscono . Per rendere il dovuto omaggio alla sua figura di uomo e di artista abbiamo pensato ad una rappresentazione che potesse far conoscere un po’ la sua opera , cercando di immaginare come riuscirebbe a fare lui se potesse parlarci direttamente. Abbiamo deciso così di lasciar parlare direttamente lui , nella finzione teatrale, attraverso soprattutto le sue poesie, riservando a noi stessi solo il ruolo di chi intervista, pone domande, legge e ascolta. Per tale ‘finzione letteraria’ abbiamo utilizzato un po’ di immaginazione e le informazioni biografiche conosciute nelle sue opere edite o che sono riportate nei manoscritti.
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D.- Come vuole essere chiamato:” Idilio Dell’Era” , Don Martino Ceccuzzi, oppure Monsignore? IDILIO- Lasciamo perdere il Monsignore perché è un titolo onorifico che mi è stato dato troppo tardi e poi io ai titoli non ci ho mai tenuto. Se vuole parlare come me di poesia e letteratura mi chiami pure ‘Idilio’ , preferisco che mi si chiami ‘Don Martino’ solo quando svolgo la mia funzione religiosa, in chiesa, con i miei parrocchiani. D,- Ma perché ha scelto questo nome: “Idilio Dell’Era”, c’è un significato particolare? IDILIO- Nessun significato particolare, salvo quello che esprimono in sé le parole:”Idilio” è una visione personale e poetica della realtà che trae ispirazione dalla Natura, come vi è in certe liriche leopardiane: ha presenti gli idilli di Leopardi? D,- …e “Dell’Era”, perchè? IDILIO- Perché sono un uomo di altri tempi, diciamo del passato. D.- Si spieghi meglio. Come fa a considerare un ‘valore’ essere considerato un uomo di altri tempi proprio quando tutti, ma proprio tutti gli autori e i poeti aspirano ad essere considerati attuali? IDILIO- Diciamo che sono un uomo innamorato del passato, soprattutto di quello della nostra terra di Toscana, di quel ‘passato’che affonda le radici nel medioevo e che con la memoria mi riporta a un tempo di cavalli e di carrozze, di servitù in livrea, di nobiltà stivalata in assetto di caccia, alla quiete della campagna, rotta dal canto di un gallo o dall’abbaio di un cane…quel passato che ancora conservano le città toscane , come Siena, con le sue stradine senz’ombra che appaiono e scompaiono, come un volo di tortora. Queste, pur che uscissi di casa, anche con la neve, mi hanno sempre invogliato a far quattro passi, magari fino al Poggiarello. E ogni volta, entrandovi, ho sempre conservata la stessa impressione d’esser preso dalla magìa di quel passato. Che fa venire voglia di posare gli occhi in una cantica della Divina Commedia e di declamarne un bel verso.
Cielo di sera XE "Cielo di sera"
io più di ogni altro ti amo,
il tuo morire in fronte, di un’altra età son io il figlio trascurato
né più il domani è mio.
L’anima del passato XE "L’anima del passato" L’anima defunta del passato amo, amo gli autunni pallidi, i tramonti, musiche d’acque a piè dei monti
e i chiostri silenziosi dove,
E’ triste XE "E’ triste" È triste dire « Fui », anima mia e camminiamo a ricercare insieme
quel che perdemmo e ne è rimasta l’eco: di quel bambino che non torna più, stagione di illimitati confini, a specchio d’acque, tu, raggio di sole,
nostra infanzia di gridi:
di criniere al vento, emblemi della nostra gioventù!
Paesaggio senese XE "Paesaggio senese"
D.- Non teme con questa esaltazione del tempo passato di apparire, diciamo così, inattuale e un po’ superato? IDILIO- L’essere inattuale non mi fa paura perché ogni epoca vive la propria ‘modernità’ dimenticando momentaneamente gli autori dell’epoca precedente ma poi ad essi ritorna. Questa voglia di rompere con il passato per proiettarsi con velocità verso il futuro è stata tra l’altro una malattia del mio secolo e rischia di esserlo anche del vostro. Voi ‘giovani’ (chiamo così tutti voi che appartenete alle generazioni successive alla mia) cominciate forse a rendervi conto appena ora di quanto distruttivo sia stato il Novecento, non solo con le due guerre mondiali ma anche con la sua idea del “progresso universale”, i cambiamenti che ne sono conseguiti sono stati come un terremoto che ha spazzato via le civiltà che si erano tramandate intatte per millenni. Io ho vissuto come un “sopravvissuto” (scusa il bisticcio), un eremita scampato a questo “flagello” del progresso universale.
Cimitero di macchine XE "Cimitero di macchine"
scheletri di macchine, inutili carcasse,
D. – Se dovesse definire con una parola sola la nostra epoca, distinguendola da quelle che l’hanno preceduta, come la definirebbe? IDILIO Ma…non saprei, ma credo che potrebbe essere chiamata l’epoca delle macchine e dei ‘rumori’. E’ un po’ questa ‘la dannazione’ che è toccata, mi sembra, all’epoca contemporanea. Mi sembra di averlo scritto in una poesia dedicata a Dante Alighieri che faceva… sì, mi ricordo, diceva così:
“O padre Dante, se per avventura ti fosse dato ritornar tra i vivi vedresti tutto un mondo di sozzura:
L’inferno che dipingi e di cui scrivi ha dentro i cuori posto le radici e son gli spirti mali ed i lascivi
di bitume impastati e di vernici: il nostro inferno è quello dei motori che divorano l’ore più felici.
Noi condannati a viver di rumori siamo le folle anonime stordite barcollanti in un pelago di orrori.”
Idilio: Ora capirai perché la vostra epoca non mi è mai piaciuta: io ho vissuto sempre nel silenzio della natura e degli anacoreti; il silenzio del passato è stata la luce che mi ha illuminato e ispirato.
Ephpheta XE "Ephpheta" (ti aprirai)
che adegua il volto della statua
alla beltà della rosa: noi
SOLE AL TRAMONTO
di avere sempre sognato e mai vissuto:
D.- Riprendiamo il filo del discorso intrapreso. In che senso la poesia trova ispirazione dal passato? IDILIO- Prima di tutto la mia poesia trae ispirazione dal passato, come quella credo dei grandi poeti che mi hanno preceduto. Il mio motto è sempre stato questo: “ Se vuoi essere giovane diventa antico”.
Dante,che nel medioevo è stato il poeta che è riuscito a lasciare a noi l’immagine più viva della sua epoca, era legato a Virgilio. Petrarca col il suo libro intimo, “Secretum”, riesce a darci un’immagine viva del suo animo di umanista, ispirandosi alle confessioni di S.Agostino, con il quale dialoga come se fosse un suo contemporaneo. Leopardi era profondamente legato ai Greci e tutta la sua poesia, modernissima, trae ispirazione dalle cose passate, che sono tanto più poetiche tanto più risultano vaghe e indeterminate. Anche per quanto riguarda la mia poesia, io trovo altamente poetiche non solo le cose passate e incompiute… D.- Solo questo? IDILIO-Naturalmente essi riescono ad essere sempre ‘moderni’, anche se inattuali, perché la loro letteratura si ispira al ‘vero’ alle cose concrete, alle persone vive e reali. Dante, ad es., incontra Virgilio, incontra Beatrice, persone vere che altro non sono che la Poesia, la quale, come fa Virgilio a Dante, rivela, di volta in volta, paesaggi, aspetti, volti, colori che prima il lettore non conosceva. D.- Che cosa ti spinge a poetare?
IDILIO- Che cosa mi ha
spinto e mi spinge a poetare e che cosa mi preme comunicare con la
poesia? Dirò: è perché mi sembra di essere a colloquio con una persona
vera! Inoltre vorrei che la poesia fosse, come fu per Dante, la
purificazione , la catarsi dell’anima mia. Credo che, se Dante è
miràbile nei tenebrosi gironi dei dannati e nei pallidi cerchi dei
purganti, è addirittura meraviglioso nel regno della luce quando
scioglie la sua preghiera alla Vergine Santissima. D.- Accetto il tuo invito alla concretezza. Parlami dunque della tua infanzia.
IDILIO- La mia vita si è svolta tutta nella mia Toscana, fra Siena, Firenze e Grosseto: in questo spazio ridotto , che io chiamo cubicolo meo.
Toscano all’antica.
MEMORIA E caduta la sera, andava l’ombra del bambino a sghembo, sulla parete, quando, nel cielo della cappa del camino, madre, accendevi il lumicino a olio. Ora che avverto diradar me stesso e accendo di parole il mio deserto, mi è caro ripensarti, in compagnia dell’alba, giovinetta che meni un gregge e canti alla pastura: solo di te rammento, in nenia sciolta la tua voce, sull’orlo di una cuna.
INVERNO DI MAREMMA
Nell’odore del mare è il mio paese, tepido inverno di maremma: fuma il grigio delle nebbie nei forteti e, come stoppie di un’estate, ardono i ceppi accesi.
Nascono, al chiaro gemere di armenti, con l’alba, i caseggiati in mezzo ai rami: di somarelli imbrunano i selciati: vanno le donne per il borgo assorte, i lunghi fianchi, gli occhi adolescenti.
Idilio: Sono nato nella campagna di Asciano, vicino Siena, ma ho avuto, per alterne vicende di lavoro di mio padre, ferroviere,un’Infanzia fiorentina
Ecco una poesia dedicata alla città di Firenze:
CARA CITTA’DOVE MONELLO CREBBI * Schiocchi di frusta bubbolio di sonagliere al trotto sono, nel mio ricordo, i tuoi viali, cara città dove monello crebbi e, al fischio, mi educai sui marciapiedi, correndo scalzo dietro i fiaccherai, dove altra scuola non conobbi che gli schiamazzi della sassaiola e gli argini del fiume:
cumuli di ghiaia gobbi, sul greto, come dromedari, e renaioli bruni sotto il sole: su dal guizzo festoso, silenziose risalivano le reti, occhi di pesciolini addormentati e colore dell’erbe erano le acque, vi scompariva l’ombra dei palazzi, la sera brillata dai prati:
carrozze infreddolite, all’estro delle strade, un bruciataio, giorni fiochi, botteghe di antiquario, pareti di crocifissi, statue mutilate, ma dalle vostre mani paglierine, nelle chiome ridenti alle fanciulle rinasceva un’estate di pamele, come ali di gabbiani, sulle piazze, in capo alle massaie, o trecciaiole.
Ero lo sbarazzino dei portoni, suonavo ai campanelli dei signori, provocando le serve, su dagli usci, a coprirmi d’insulti e d’improperi: dagli amici più veri, i cenciaioli, beceri urlatori dei rioni, la saggezza dei poveri imparai né un verso chiesi mai ai tuoi poeti grandi in Santa Croce, cara città dov’io, al lamento dei grilli, non dormivo: - la casa, ultimo piano, là rivedo, Rifredi, il prato - udivo la notte fuggire sui treni: stormiva il bianco del duomo lontano, il fiume, allo stellato.
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Idilio- Firenze mi è cara come Grosseto, come Siena, come tutta la Toscana.
Ricordi di fattoria.
La mia
storia di ragazzo povero è legata alla fattoria.
Terra di mia madre (da itinerario poetico 1966-1978) * Lieta ti seppi, terra di mia madre che andava scalza, i lunghi solchi nei begli occhi bruni e m’incantò delle città senz’ombra un vento di bandiere:spigare le torri vidi e un chiaro di paesi all’orizzonte.
Io so di amarti, come allora, per un fuoco di muri silenziosi fra due cipressi, pel vigneto magro sul ciglio rosso del greto, per il lume notturno degli ulivi avaro e scarno: ma più non odo il suono di un armento nè del bue lento il mugghio nel sereno nè tra i pioppi canuti, annitrire puledri al maestrale: bruca la luna i campi spogli e i vecchi cimiteri.
Io so di amarti per i tuoi maggesi che d’ocra a Giotto tinsero i pennelli e per le dolci membra dolorose che il Buonarroti modellò di Cristo per l’arborato Serchio d’Ilaria del Carretto: per i poeti, ti amo, attica terra da cui venne Dante e in cui son nato.
Idilio - Insomma: La Regione è La mia toscanità:
Dante è Firenze, è Toscana Leopardi è Recanati Pascoli La Romagna Pavese Le Langhe Ungaretti :Porto sepolto, L’Egitto Montale: Ossi di Seppia
Debbo alla maremma i ricordi più belli della mia infanzia, a Firenze la mia formazione culturale e a Siena la mia formazione spirituale. Innamorato del passato della città di Siena e dei suoi mistici, scrissi la vita di Santa Caterina, Ho scritto un libro sul trecento senese (Il Pianto delle torri) ho tenuto all’università degli stranieri senese lezioni di spiritualità. Uno dei miei ultimi libriccini : “Polifonie di una notte deserta” e quelle lezioni hanno tratto ispirazione di là.
Neppure Siena mi è stata
tanto grata; ma, evidentemente, nessuno è profeta in patria. Non lo è
stato Dante, quando era ancora in vita, con i fiorentini ; non lo è
stato Tozzi con i senesi che hanno aspettato che altri riconoscessero il
valore della sua opera letteraria dopo la sua morte. (Da Polifonie 1976)
Sempre avara di lode mi fosti città che amai non per la gente d’oggi no certamente ma per la diffusa anima dei tuoi santi, la luce paradisa ed improvvisa che riveste i colli, per i vicoli bui e le dorate Madonne quasi adolescenti, per le chiesine perse in clausura e per le tue basiliche che l’alba solleva luminose all’orizzonte, per i tuoi marmi stanchi e traforati e per la piazza che l’estate inonda di risse e di bandiere e per le torri, nel cielo viola, cariche di gloria, e per le sere che scolpita e bruna in te richiudi tutta la tua storia.
D. – Vi sono altri ricordi legati a questi luoghi della Toscana?
IDILIO- Certo, Firenze, ad es., ha segnato non solo la mia infanzia , ma anche la mia vita da adulto, come ho detto la mia formazione culturale. Dopo quel triste periodo dell’infanzia, quando mio babbo era ferroviere, tornai a Firenze quando nacque il Frontespizio nel1929 . In quel periodo ho scritto i primi libriccini di versi : L’aiola di luce e le Ombre solitarie , Innocenza , Stagione Mattutina ,Tenerezza . Ebbi l’amicizia epidermica di Papini e di Domenico Giuliotti, ma le amicizie più durature con Piero Bargellini ,Nicola Risi e con Mario Luzi.
Queste amicizie mi persuasero a non lasciare la Toscana. Divenni parroco a “Casal di Pari” e lì rimasi fino al 1944, quando i miei parrocchiani mi salvarono da una morte certa sulla piazzetta del paese, ad opera dei fascisti repubblichini. Dal “ libro dei segni celesti” inedito Piazzetta di Maremma (4 Giugno 1944) * Piazzetta di Maremma, alla rozza aria di bosco, io me rivedo inerme le spalle al muro, a te aderente come a domandare aiuto e il sole a piombo a crivellarmi il cranio e l’orda nera degli abbietti, cento contr’uno, pronti ad aprir fuoco, ghighe postribolari, il capo lurido escremento, che mi tiene la pistola in bocca e il buio in tanta estate. O rossa estate partigiana al largo del bréntalo che schiuma libeccio tu garrivi di morti adolescenti e sulla piazza stramazzava l’eco. Or nelle notti sopite del borgo alla rozza aria di bosco, un angelo scrive a carbone sulla parete: “Qui uscì dal mitra infame del fascista predone incolume un poeta”.
====================================== Brano musicale
Nel dopoguerra andai a vivere per un certo tempo, quasi da eremita, anche a Lecceto. Poi mi rifugiai in una povera e piccola casa di campagna , la mia “Domus bonitatis”, dove rimasi per molti anni.
Lecceto Eremo antico, nel tuo sonno io vissi l’inverno dei romiti al tardo fuoco, il vento, a notte, strepitando in risse di scheletri e di demoni contorti: d’incappucciati assorti, a piedi scalzi, un grumo d’ombre i chiostri. O canuto di secoli rimani, nel tuo silenzio di ilici severe a custodire l’anima dei santi: io vidi le celesti primavere nel cielo degli «Assempri ». E il tempo più non era. Giovane e bella, bianca nel soggolo, dai boschi qui saliva Caterina che dal pane degli angeli irradiata, come la mamma va dal suo figliolo, Frate Felice chiama e frate Antonio e a sé d’intorno aduna la brigata: « Potete in ogni loco Dio servire e non vi turbi l’eccessiva cura del dove dimorare e in cui morire, soltanto gli egoisti hanno paura” ». In una corte bruna, a piè degli alberi,
le viole vellutavano la
sera.
PICCOLA CASA (da “Poesie:Non tornerà l’estate”, 1976) * La cicala ripete il triste metro sul ciglio della sera: in quel canto di vetro il giorno muore,
Odorano di funghi le tue sere, matura d’uve è l’aria, un filo di bambagia l’addipana: volti scomparsi e il suono di antiche voci tornano da una luce lontana che subito si appanna e si scompiglia, ogni stagione ormai si rassomiglia, ogni inutile attesa mi sconforta e la tua porta è chiusa, piccola casa vuota.
E ti soffermi a mezzo ottobre, dici poco meno di un terzo a noi rimane dell’anno e già s ‘intenebra nei boschi l’inverno e questa pausa di colori adolescente d’erbe e di maggesi ci ricorda la calma e lontananze accese di paesi: il cane, a sera, reca, nell’uggiolio, venti di prato.
Quando pallido e vano dirada il bosco e a lutto veste gli alberi, non sei che il guscio di una ghianda vuoto: in te la notte, dentro il vento, ascolto e lo sgomento che mi fa lontano.
Sotto la gronda foglie accartocciate: crepita il ceppo, vaga, sulle pareti, una smarrita estate.
Odo il trotto degli alberi nel vento e notturne pianure di nitriti: dove lasciai l’infanzia, o bei puledri, crescono fiumi d’erbe e la palude incanuta di mare, va la gazza scocheando, sui pioppi inargentati: laggiù mio padre semina solchi neri e attende l’orzo che maturi ed io non scorgo ormai che cimiteri.
====================================== Brano musicale
Idilio - Con gli amici di allora ci si stimava, ci si voleva bene: Nino Salvaneschi, Giorgio Umani, Bruno da Osimo.
Erano gli anni del risveglio della letteratura cattolica e della maggiore attività editoriale di Vallecchi . Volevamo ridar vita ai libri della fede . Lavoravano con me Giuseppe De Luce, Giuliotti, Misciattelli, Bargellini, Fallacara, Casini e molti altri. Tornavano a circolare i Fioretti di S.Francesco, le opere di Jacopone da Todi, del Sacchetti, di Angelo da Foligno, del Savonarola, di S.Filippo Neri, dei mistici medioevali. Capimmo questo: Era inutile chiedere alle filosofie e alle politiche la soluzione ai nostri problemi interiori: il paese dell’anima era lì, quello che aveva trovato Clemente Rebora, Giorgio La Pira, P. Gemelli, Borsi, lo avevo trovato anch’io.
POLIFONIA SACRA (da Polifonie di una notte deserta 1976) * Dio che cercai con l’intelletto, un suono mi rispose, il tuo nome: nel tuo lume, per ogni dove, vidi l’universo e mi fuggì l’immagine del fiore... Dio degli schemi, come noi, schedato nei manuali, troppo vasto sei, tanto vicino a noi se per un fiato che esce, morente il corpo, t’incontriamo... Dio del mistero, dei perché insidiosi tanto da te mi basta essere amato che lo scontroso me si fa sereno.
Noi diciamo di Te quel che non sei e discorriamo dietro una parete d’ombra, sovrapponendo le montagne a prolungare il nome tuo sì breve. Oh, i pensieri degli uomini non sono che mandrie di chimere allucinate! Carovaniera Notte le conduce; Tu il pelago raggiante e senza sponde che germoglia la vita e la riprende
ed io, sull’onda tutta luminosa, il pallido gabbiano che riposa. Senza di me fu il tempo, l’infinito fiorir di primavere e di stagioni: con me l’eternità bionda di sole. E non sono, Signore, il prima e poi altro che vani segni a limitare un’impotenza fatta di parole.
La tua parola è il Verbo che dischiude un’armonia taciuta e sconosciuta: Tu respiri per entro la sua Carne immacolata, come un flato enorme che i disegni degli uomini scompone. Tu che i silenzi popoli di note, o musicale Dio, fammi conforme alle tue stelle immemori e remote.
Tu sei, Notturno Dio, il claustrale che la dimora elesse tra gli abeti. Quando il silenzio domina sovrano, cammini a lenti passi solitari sulle tombe dei santi e degli asceti, lieve come il crepuscolo che indora l’erba dei presbiteri addormentati. Ancora sulla terra gli eremiti vanno reclusi in una fede oscura: li penetri così come fa l’acqua dentro la creta in cui germina il grano. Tacciono i sensi e le lusinghe buie e nasce dal morire l’ora bella: la dolce tenebrìa, l’azzurro fiore a partorire s’apre il Paradiso.
Noi gli incompiuti, Ti crediamo, Dio, nelle creature e d’ogni cosa al fondo pesa l’affanno e la desolazione. Alberi senza vela in mezzo al mare, i nostri giorni si agitano al vento: battono l’onde su lo scoglio nero e ci illudiamo di trovar riposo in altri lidi, sotto nuove stelle, ma sta l’abisso dentro l’occhio vuoto.
Sono il cencioso, il logoro di fame: eppur questo ludibrio mi consola: vedo negli occhi altrui la stessa pena, mi siedo con i poveri la sera sullo scalino della casa nuda. Ha gesti desolati la miseria, la mano adunca si agita e si spiana, quasi cercando la tua veste d’aria. Ma la coltre del sonno è meno dura della giornata livida e patita: è cadere così nelle tue braccia, senza invocarTi, con la bocca chiusa.
Sarò come la pietra in cui rifulge il volto che l’artefice vi infuse. Tu che soggiorni, Dio, sulle montagne e scolpisci le immagini per lampi perché l’eternità rinasca in noi, questa inerzia condanni che rinchiusa dentro la fitta sordità dei sensi da Te ci estranea e ci fa quasi muti.
Mi empivi di paura e di stupore quando riverso in cumoli di fieno dell’infinito mi parlavi, Padre. E la cetonia colorava il giorno del suo lamento e il passero furtivo migrava con la spiga dentro il becco. La rondine recava a me, su1 petto, il segno bianco della tua bontà. Un cerchio d’alba, a notte, in mezzo al prato era il paese dell’eternità.
Nelle vetrate delle cattedrali i tuoi santi Ti pregano, Signore: hanno le infule d’oro, i pastorali ricurvi, abbacinati da una luce che invermiglia le pietre sepolcrali: le vergini sorreggono le chiome come morenti spighe nelle mani.
Io non voglio, Signore, che il tuo respiro tenero di Padre e so che il mare muove verso di Te con l’ansia del suo cuore, che il firmamento carico di opale è un colloquio dipinto di stupori. Gli uccelli migratori, il sole, il vento sono la tua canzone e solo s’interpone, tra la vita e la morte, il bene e il male. Tu che mi dici a sera « È notte, va’ figliolo, vai » tra foglia e ramo lieviti il richiamo di una certezza fatta a me più pura: dei mali che pavento niuno allora mi trafigge di strazio o di paura.
Quanto hai creato, Dio, nell’universo è bello: il mare, il firmamento e l’ape ed il giumento, la lacrima e il sorriso, l’abisso e il Paradiso, la luce del beato e la fosca tristezza del dannato.
Che saranno, Signore, queste mani su cui piovvero lacrime di fiele? Tu me le desti a trapiantare rose nel tuo giardino: l’infanzia colma di baleni d’oro seppero e la carezza ventilata dei pruni, il disinganno, il patire, il partire delle persone amate e claustrali ,giacquero nel buio. Verranno a Te come ali ripiegate vinte e deluse? Abbi pietà, Signore, di queste mani chiuse.
Geloso Dio, mi hai dato che Ti senta come l’abisso della perfezione: ma l’ansito del vento stanca il fiato e la polvere sale dalle strade. E se la notte su di me riversa la tua chiarezza e torna il mio passato, opaco mi ritrovo e senza volto. Mi scioglierai da questa prigionìa che nella creta l’anima confina? Io numero i miei giorni e gli anni avverto che poseranno in grembo al tuo sorriso: l’aurora spunterà dal mio deserto.
Deluso Adamo, ti ritrovo, a giorno, col filo d’erba su le labbra: dell’albero incantato al tronco siedi: odi lo schianto d’uragani, vedi d’ossa fiorir le zolle sotto i piedi. Ti pende il tempo sul canuto mento: in colonne di fumo, a cento a cento, il groviglio dei regni e degli imperi arde, si torce, si arrovella al vento. Una sorte ci eguaglia e ci percuote: io non piango con te le tue sciagure, nato di terra, ma la derisione dei giorni dentro le mie palme vuote.
A costruirsi l’Eden distrutto innalzarono gli uomini le case, ma le finestre parvero, di sera, tanti occhi di morti. Fecero strade e giardini e un mendicante fu visto e una fanciulla a piangere tra i fiori. Adombrarono il mare di velieri e un vento amaro li lasciò deserti. Si spinsero nel cielo, ardimentosi, cosparsero la terra di vittorie e sulle braccia recavano ghirlande funerarie. Or disgregato l’atomo, li tiene la paura sospesi ad una rupe come branchi impazziti di fanciulli.
Foglie rosse! Sono embrici, Signore, per la casa dei morti. Noi ravviviamo in esse le illusioni che qui tenemmo dentro gli occhi assorti. Come un drappo è quest’erba di velluto che chiama i vivi e i cari estinti aduna e li veste di un sonno sconosciuto. Ma la notte ci avverte che il giardino del gran silenzio, oltre la terra bruna, albeggia ed è fiorito.
Son frammenti di sillabe le pietre: anche le pietre gridano il tuo nome. Vi costruimmo le città selciate battute dall’angoscia e dal dolore: si sfaldano chimeriche demenze e in falloppi di cenere le ebbrezze e le notti son luci avvelenate e un frettoloso, vorticoso andare risveglia l’eco delle sepolture. Ma niuna casa ci darai più chiara di questo cielo che hai riposto in noi, ineffabile quiete delle alture. Quanto lasciammo di caduco tace: ci empi di azzurra tenebra le mani: moviamo, in sogni opachi, verso beltà silenti e irrevelate. Così giungono i morti alla tua riva e un velame dolcissimo li tiene da noi lontani.
Sarà buio il mio corpo ed io starò dinanzi al tuo costato, Cristo Signore: Ti dirò contrito: Fui l’angelo predato e reco dall’esilio un trasalir di rose e d’erbe amare. Non trovai che un frammento illuminato negli uomini creduli. Udivo in grembo agli steli il fioco pianto di Abele. Ma Tu passavi forestiero, sedevi all’ombra dei poveri sulle porte logore di vento. Eri il demente pallido, il carcerato, il ferito, eri l’ombra trafitta sul guanciale. Nel bianco sepolcrale io vidi fiorire le tue mani. Doleva ai vecchi la memoria di età defunte, chiari d’aurora i pargoli avevano i tuoi occhi: gelose di silenzi, allo spigar delle stelle, le tue chiese. Eri brezza soave, eri l’Amore.
Accompagna il mio credere una stupita luce che increspa l’orizzonte: passano i Santi, tra l’ombre di quaggiù e, mendicanti di eternità, i poeti. Le ore che si allietano di Te godute, le sere inerti nell’anima smarrite, si fanno ora speranza di un’attesa. Coglie il pensiero, come l’anguilla il suo boccone d’aria, la nullità che lo delude e sa che dove il nostro tempo vive esulta un grido d’innocenze: a pena un drappo bianco ci divide.
================================= Brano musicale
Idilio- Con tutto questo, resto affezionato alla mia Toscana. In cubicolo meo moriar
Ora di me stesso eremita tra quattro muri di silenzio nascere ascolto in mezzo ai rami il tempo e una nenia mi pare sì lontana quale fu la mia vita emarginata e sola sconto il vissuto- non vissuto in questo romire di foglie e un pensiero assiduo mi accompagna al paese dei morti.
Da Itinerario poetico 1966-1978 inedito
Foglio bianco XE "Foglio bianco" * Vorrei non essere nato o il già vissuto non fosse che un foglio bianco: un peso stanco di giorni con me reco e disilluso guardo nella mano. Quanto di questo mondo effimero abbia goduto o goda altri, lo ignoro e se a ritroso percorro il mio cammino, emarginato e solo mi ritrovo.
Talora vidi una città di lumi fiorire, d’improvviso, nel sereno e di lontano brillare e terra e cielo insieme: immaginai, sopito ogni rumore, il reame di un popolo felice ma come il giorno quelle luci, d’un colpo, spense e rivelò le case, macchine in fuga udii e l’urlo di sirene.
Opaco sonno XE "Opaco sonno" * Non io, velato sonno, ti chiesi di nascere alla vita: a te ritorno oscurità di sera; spento il doloroso esistere che antica seppe l’anima del vento opaco sonno da cui venni Ti renderò la spoglia che mi hai dato.
Tranne che il ricordo XE "Tranne che il ricordo" * Non ho più nulla tranne che il ricordo e d’altre primavere mi ragiona il passero, di sera, ma funesta già la stagione che mi fu gradita sopra la porta indugia: va la luna carezzando i tuoi fiori e l’ombra lascia della tua mano stanca a pena mossa e un’immensa pietà mi prende allora di te, di me, di questa mia sventura né chiarità di stelle mi consola: smarrito e solo a quelle rimirando, altissime, vorrei sul ciglio bianco dell’astro più deserto essere accolto ma ognuno reca in volto la sua notte e l’eco dei suoi morti l’accompagna.
Non ho voce XE "Non ho voce" * Una musica d'alberi sul fuoco crepita o notte, ed io qui solo, in questa povera casa, ove singhiozza il vento, altri inverni rammento al mio sconforto: le lunghe veglie, il chiacchierio soave di figli e di cognate, il casolare sul fiume, la palude e il tepore di stalla nelle mani di mio padre mentre ai giovenchi nevica sul dorso il lume addormentato della trave: nel vento ascolto, col suo bestiame e l’uggiolio dei cani, la carovana che mi dice “addio”, e un pescatore ossuto mi trascina nella sua rete buia in fondo all’acque e non ho voce per gridare “aiuto”.
Ridammi gli occhi del bambino e il prato XE "Ridammi gli occhi del bambino e il prato" dove l’azzurro trema: nella stagione estrema, or fatto segno all’altrui scherno, ostile a me divengo e mi compiango, i dì fuggiti piango e quelli che verranno: dato almeno mi fosse, Padre, premere la gota nella tua mano, come sull’erba che vacilla nella sera! Ma tu dalle illusioni, a poco, a poco, mi disavvezzi e tardo e fioco il senso di ogni diletto perde la memoria. Padre che mi hai promesso di abitare con te stesso e col Figlio Redentore, lo Spirito d’Amore e la gloriosa Vergine perdolente e i tuoi beati, fammi più breve il tempo e la dimora sì che ritrovi gli occhi illuminati di quel bambino e il prato dove l’azzurro trema.
Ora che ricomponi, a frammenti XE "Ora che ricomponi, a frammenti" nella cella dell’anima, pietosa, questa vita, rammenta gli anni irosi, i boschi di maremma, la mitraglia funesta, il mio lamento, il bianco della tua mano a ricoprirmi gli occhi.
Di rimpianti addoloro: oh, meglio giovani sul tuo petto cadere come Tuldo , in un grido di sangue fatti eterni, che nell’inedia e attendere!
Pure per certe notti tenere che vieni a consolarmi e che mi avvii, come fanciullo a quelle rive dove i morti nell’amore hanno il tuo volto, io dovrei molto ringraziarti: d’avermi in povertà salvato e riservato all’ultima cena dei tuoi pensieri, pane immacolato.
L'ombra e le cose XE "L'ombra e le cose" * O tumultuosa immagine di noi chi fermerà quell’attimo in cui vera sarai per sempre? Io quel bambino fui che guarda grama la sua cena e il vento inseguire fantasmi ode alla porta, io quel ragazzo che, sui libri, chiede una risposta ai morti, io quell’assente omuncolo tra i vivi che gli insulti si ebbe dai vili e la pistola in bocca, ‘io quel vecchio sarò, l’ombra di un’ombra.
Ingialliti ritratti alla parete, oggi ho pietà dei miei volti defunti.
Fa che mai ti riveda, che non sappia dove sparita sei, o tu incompiuta giovinetta che mi hai detto addio, così leggera quando sei partita, lasciandomi i begli occhi d’acquamarina e i prati della sera.
===================Brano musicale
Commiato.
e bevesti la luce dei ruscelli Ti segnava col crisma dell’ aurore
tua madre in fronte, scalza a mezzo i solchi: gli usignoli migravano in amore. L’ orizzonte di perla era sul mare, ogni fronda gemmata di frescura,
e di miele gocciava l’ alveare.
che, nel silenzio della clausura, Ti metterai in viaggio, anima mia,
gli usignoli saranno a pié del monte, nel lume d’ oro della poesia. Neve di gregge in placide ulivete e l’ arso greto acceso di ciclami e le pianure vive di richiami, poi canteranno tutte le campane svegliando l’ ombra d’ anime lontane. Cielo senza confine e senza strade, piccola terra, terra di mia madre, dove tutte le cose eran leggiadre, risorgerete e dall’ antico mare, le rondini verranno a meriggiare
tinte d’ azzurro, fresche di rugiade. Alla Vergine Maria Mi vestirai di rondini e di fiori se tornerà con te, Vergine bella, il fanciullo di un giorno a cui negli occhi Luceva un alba chiara di albicocchi e, a sera, il foco d’oro di una stella.
Ecco Maggio che mette uno stornello in ogni casolare: in mezzo al verde erran salmi di allodole remote e le tue pievi intonano devote un inno che nel cielo alto si perde.
E la preghiera un grido di candore, giovane come l’erba che si bagna di rugiada e di sole: come il pane ella profuma di dolcezze umane e nell’esilio nostra pia compagna.
Se nel tuo volto, Vergine, mi specchio, ritrovo l’ombra dell’ età lontana, timida e pura come quella polla che d azzurri silenzi si satolla, nell’antica foresta montigiana.
Opaca terra che ci fa pressura isterilisce l’ anima e la mente: tu sei fontana de la vita vera da cui discende a noi la primavera delle speranze candida e ridente.
Altro non chiedo, Vergine clemente, che di vivere al mondo sconosciuto, asciugando una lacrima ignorata nel nome tuo, Regina Immacolata, che nella morte mi sarai d’ aiuto. * Allor che mi vorrai, mi staccherò, nell’alba, anima adolescente, come fiore che lascia il ramo frale: spunteran l’ale d’angelo dove germinò l’amore. Di letizia tremare mi vedrai, ma la terra ingannevole e remota m’apparirà come una casa vuota.
Cerco nell’alba il tuo volto, Signore, e la luce che veste la collina mi empie l’ occhio mortale di stupore e mi ritrova nuovo ogni mattina. Poiché freme la terra dell’arsura, una sete pervade le mie vene e l’ anima che anela d’esser pura scorda la fonte viva dei suo bene. Quando la sera l’alte cime indora e nel fondo dei laghi trascolora, l’anima mia si accora.
Tempo, moneta d’ oro sconosciuta dentro la palma ignara di un fanciullo, ore gettate al vento per trastullo Abbi pietà, ,Signore, di questa inerzia di materia bruta!
Questo solo ti chiedo, che il tuo volto ogni giorno da me non s’allontani, si plachi nel perdono ogni mia pena e ti fissi così senza paura nell’ ora che si oscura ogni luce terrena.
* Signore, fa del mio canto una gioia che tremi di dolcezza tutte le aurore, fa che il silenzio lo accenda come un piccolo incendio d’amore.
Fa della mia casa un cristallo lucente di primavere e cento campane vi passino dentro come un fiume di bionde preghiere.
E fammi sostare alla porta, a la tua porta, Signore, come l’ ultimo dei tuoi, accendi ne la mia voce un sorriso che anche se piango riveli il tuo dono d’amore.
* Sai tu dove ripone, anima mia, la sua gioia il tramonto? Forse a la riva ove ciascuna pena si placa e rasserena ed ogni volto s’illumina d’eterna poesia. Questo vorrei, Signore, che ogni fiore non avesse malìa d’essere colto, e la bellezza fragile del giorno fosse l’incanto della mia preghiera poiché si attrista, a sera, chi lontano già vede il suo mattino, ombra che discompare sul cammino. Ogni giorno che muore, o Dio Signore, è un gradino che sale a la tua porta. Fa che, senza rimpianto, cader veda le rose ai miei ginocchi, sicché mi prema gli occhi la casta meraviglia di chi torna a la tua casa o Dio.
Le tue soglie, Signore, tremano in alto come foglie d’oro nel giardino sereno dell’ Amore.
Nei tuoi porti d’argento approdan gli innocenti a cento a cento. Curvi nel loro dolce scoramento, tornano i morti stracchi dell’esilio, gli occhi scarniti da la terra, un poco di fresco cielo a chiedere che sanno di ogni umana dolcezza l disinganno.
I vivi su la strada del dolore chiudon le mani in croce a rimirare le soglie dell’amore. Non ti accorare triste anima mia,
poiché d’ogni pena il Signore forma un piccolo fiore, detta una nota nuova all’ armonia.
“Non muore chi non viene dimenticato” Isabella Allende
FINE
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