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n 9-10 gennaio-giugno 2007  

dedicato a Idilio Dell'Era

Saggi critici su La rivista di Poesia "Polimnia"

 

 

Il Paese dellanima di Alfredo Franchi


Com’erano belli nostri semplici tempi di tant’anni fa... la sincerità di quelle amicizie, credilo, è ancora il meglio che m’è rimasto profondo nel cuore... i “trionfi” come tu scrivi in una delle dediche, son buggerate: sono le care e silenziose amicizie, i cari e durevoli affetti che contano,
il tuo che si vergogna, aff.Betocchi’

Così terminava la lettera del poeta inviata ad Idilio Dell’Era nel giugno del 1962. Con poche essenziali parole ricordava all’amico gli anni del comune impegno nella rivista ‘Il Frontespizio”, quando era nata la profonda amicizia nutrita di sogni e di ideali da realizzare. Betocchi si scusa per il ritardo con cui aveva risposto allo scrittore senese che, molto tempo prima, gli aveva inviato due libretti di poesia che erano però scomparsi nella caotica “massa di carte e libri” del suo studio e poi, per caso, erano stati ritrovati e subito letti quasi ad espiazione della involontaria trascuratezza: “solo per caso muovendo da un tavolo una massa di carte e di libri ho ritrovato così i tuoi due che ho letto stamani e mi commuovono per la dolcezza e il candore del canto mentre le tue dediche affettuose non cessano di rimproverarmi”.
Non si tratta di complimenti di maniera, ma di una valutazione critica che coglie con esattezza aspetti non marginali della poetica di Idilio Dell’Era. Tale riconoscimento acquista maggior valore ove lo si collochi nell’ambito della corrispondenza intercorsa tra i due scrittori in cui non mancano momenti di asprezza e di dura critica come nella lettera inviata da Betocchi nel maggio 1953(2) in risposta alla richiesta di Idilio Dell’Era di aiutarlo a trovare un editore disposto a pubblicare una sua raccolta di poesie. Senza entrare nel merito della controversia è significativo notare come il rapporto di amicizia non escludeva l’estrema franchezza dell’espressione senza concessione alcuna all’ipocrisia di velate parole come avviene in certo buonismo imperversante nella nostra epoca.


Nel vasto e non catalogato archivio di Idilio Dell’Era e nella corrispondenza intrattenuta con scrittori e critici più volte si trovano richieste di recensioni critiche e di ospitalità per pubblicare non sempre accolte (3). Particolarmente suggestiva la lettera scritta da Luigi Baldacci nel maggio del 1980 (4) in cui il critico nega con parole decise la recensione richiesta: “scrivere di questo libro? Mi dispiace, caro ldilio, ma non mi sarà possibile: per là semplice ragione che dopo anni, molti anni di critica militante, io ho lasciato questo lavoro ingrato, che non gratifica nessuno... Però questo libro lo tengo da parte per le occasioni di riepilogo
. Nella parte iniziale della lettera peraltro, in maniera finemente dissimulata, il critico aveva delineato in tratti essenziali la personalità poetica dello scrittore senese per cui, in sostanza, aveva donato in dimensione epistolare privata la recensione richiesta e negata in sede pubblica. Nelle note sparse da Idilio Dell’Era intorno alla poesia lo scrittore ritorna di continuo sulle condizioni esistenziali che scandiscono in vario modo tale avventura dello spirito. Illuminanti in tale senso le sue parole intorno alla “Sorte del poeta”: “Per quanto faccia il poeta si trova sempre in condizioni di disagio nella società e di protesta contro il “mal seme di Adamo”: la sua, tra tutte le arti, è la meno redditizia... Nel migliore dei casi la sua opera finisce nella storia della letteratura o in uno scaffale di biblioteca che è pur sempre una cassa da morto. Rinvivito, mille volte rinvivito in commenti e tesi di laurea, finirà per essere analizzato brano a brano, per subire un processo che, le più volte, ne sminuisce i pregi e il valore, quasi mai per essere capito e amato. Ma invidiata ed invidiabile rimane ai poeti la libertà, chi se ne priva, ponendosi al servizio o lasciandosi strumentalizzare, rinnega la sua natura”(5)
Esperienza di autenticità e di libertà la poesia e quindi necessaria sempre ed indispensabile risorsa in epoca moderna in cui, per una sorta di voluttà nichilistica e di un istinto di morte, si sono privilegiate le interpretazioni atte a manifestare gli aspetti torbidi ed inquietanti della natura umana risolta in maniera univoca in tali negative dinamiche. In una lettera aperta all’amico Giorgio Umani così Idilio Dell’Era si esprimeva: “Non ti sembra, caro Giorgio, che questo così detto dopoguerra sia una gran veglia funebre? Stiamo assistendo alla morte del meglio di noi, della nostra civiltà e non riusciamo a persuadercene... sarebbe il caso di dire che tramontato è il sole dello spirito, il mondo più bello, e che nella notte di gelo rissano solo gli uragani... (la poesia) presuppone un’intima rivoluzione nell’uomo, una sofferenza, un dono o molti doni insieme acquistati: o egli è ricco del suo mondo spirituale e perciò vivo, o egli è povero, perciò morto. Dalla morte non nasce la vita.., e l’arte è vita. L’arte del Novecento si è dimostrata effimera e per tre quarti negativa, facendoci vedere quello che siamo; noi invece vogliamo mostrare quello che dovremmo essere”(6).
Dell’Era, riflettendo con acume sul malessere della sua epoca, riteneva che la crisi della poesia e della scrittura dipendesse anche dall’equivoco che “lo spirito, l’intelligenza, l’ingegno, il genio come del resto la santità siano cose commerciabili’(7). Non era vero che tutto si poteva acquistare con il denaro;; i valori dello spirito non erano disponibili nella transazione economica. Nel processo degenerativo della scrittura fattore decisivo era stato “l’aver asservito la letteratura alla politica”(8), come si era appunto verificato nei regimi improntati sull’ideologia del totalitarismo nelle variegate espressioni di destra e di sinistra quando, al contrario “l’arte ha bisogno di essere disinteressata e spontanea”(9), in tal modo difatti l’artista si svincolava da ogni condizionamento di natura psicologica e sociale. E qui Dell’Era si apre al ricordo dell’epoca incantata de “Il Frontespizio” a cui “collaborarono disinteressatamente pochi spiriti bene affiatati... senza servilismi, tanto quanto bastò per essere fecondo e rimpianto”(10). Di tale vicenda si trova una partecipe rievocazione in uno scritto del 1967: a distanza di tanti anni si comprende meglio quanto è accaduto ed in una rievocazione nostalgica si coglie, quasi liricamente, il significato di una emozionante avventura spirituale “Quella fu per noi la stagione più fervida e cordiale, auspice Piero Bargellini, al quale, prima che sia troppo tardi, i frontespiziai superstiti dovrebbero tributare un omaggio di doverosa riconoscenza. Si era giovani allora e soprattutto uniti. Poi la guerra ci disperse e oggi ci si conta sulle dita, stupiti che la morte ci abbia così diradati. Ci pareva anche che valesse la pena dì scrivere, far della poesia: la vita aveva più consistenza.
Potevamo esser malati di estetica, del bello stile o, se vogliamo, di angelicismo: sarà perché, come ho detto, quella fu per me la stagione più bella, sta di fatto che le pagine degli autori di quel tempo , dì Bargellini, di Lisi, di Betocchi, di Pezzani, di Grande, di Barile, di Bugiani e di altri mantengono tutta la loro freschezza ed incanto. Se dovessimo definire invece il ventennio che ne è seguito, poche eccezioni fatte, dovremmo dirlo la dittatura del brutto e della pornografia, gabellata per letteratura”
(11).
Con tutto ciò secondo Dell’Era “non dobbiamo essere catastrofici’. Lo scrittore che, per suo stesso riconoscimento, soffriva di un “romanticismo foscoliano e funerario”(13) per cui risultava più emozionante visitare i luoghi in cui i grandi poeti erano vissuti anziché incontrarli di persona, non si esauriva però in una nostalgia morbosa e di maniera, convinto sempre della funzione insostituibile della poesia per salvaguardare l’interiorità degli uomini di oggi e di domani e nella speranza ribadita che non sarebbero mancati mai “quei pochi, pochissimi poeti e artisti che non si lasceranno commercializzare”(14)..
Dell’Era, rimanendo costantemente nella prospettiva della eternità e non in quella del tempo, ne coglieva con preveggenza gli aspetti più ambigui e conturbanti destinati ad enfatizzarsi nello svolgimento della modernità quando “per la libidine di notizie sensazionali si vomita tutto. Si mette tutto sulla piazza”(15), determinando in tal modo la rarefazione o addirittura la scomparsa di quella dimensione interiore fondamentale invece nella messa a punto e nella conservazione della personalità. Non casualmente nelle sparse riflessioni dello scrittore intorno al significato della letteratura e della poesia, a più riprese, affiora l’elogio della solitudine, non come scelta che renda estranei al tumulto della vita, ma come pausa necessaria della interiorità per poi tornare tra gli uomini donando loro frammenti di verità e di bellezza.
 Dell
Era così affascinato da Siena, ne aveva in maniera sofferta colto tutti i limiti e le ambiguità quando in una penetrante analisi dell’opera di Tozzi, per una sorta di meccanismo faceva intravedere il suo rapporto problematico con la città dall’aria pettegola e provinciale, scontrosa e angolosa”, nella quale, alla fine, lui stesso era vivo e presente dappertutto meno che a Siena... (perché) Siena è un città fatta così: livella e appiattisce. I suoi figli migliori se ne vanno, tentano, per farsi un nome o una reputazione, altri lumi, città di più largo respiro”(16). Si comprende pertanto, da tale angolatura, la predilezione di Dell’Era per la solitudine, come condizione atta a salvaguardare l’esistenza dallo sfilacciamento nella chiacchiera e nella banalità: “Amerò la mia solitudine che si accende di aurore, di piccole cose soavissime a vedersi, anche se dimenticassi il linguaggio degli uomini, hanno le creature una loro voce che fa tremare di gioia e di meraviglia”(17).
E appunto rimanendo in tale condizione di vita che l’uomo conserva integro il suo rapporto con la realtà nella sua dimensione infinita e nelle piccole cose: niente è insignificante per chi sa rimanere in condizione di ascolto e di attesa. La mancanza di parole atte a significare ciò che si contempla non attenua l’intensità delle vibrazioni emotive, indicibili come tutto ciò che è autentico ed irripetibile. Il riconoscimento dei limiti non implica però il rifiuto del linguaggio che rimane pur sempre risorsa suprema dell’uomo. E appunto per questo nella consunzione delle parole si attesta la radicale miseria della modernità con i suoi “venditori di parole vane”. Ove la parola perda la sua densità semantica la comunicazione si dissolve nel flusso nichilistico in cui nessuno può donare e ricevere. Sul piano del linguaggio il vero ateismo lo si ravvisa quando la parola, per un processo di interna consunzione e logoramento, si è completamente dissolta sul piano del significato. Di tale perverso andamento Dell’Era aveva colto tutto il rischio e la pericolosità e, appunto per questo, nell’esperienza poetica tesa a salvaguardare la consistenza delle parole, ravvisava l’ultima possibilità di salvezza, mentre “era inutile chiedere alle filosofie e alle politiche la soluzione dei nostri problemi interiori”(18), in quanto esperienze inadatte e incapaci di riportare l’uomo a quel “paese dell’anima”(19), luogo epifanico di recupero e salvaguardia della interiorità ed autenticità umana. E’ questo il motivo per cui Dell’Era era lettore attento e partecipe dei mistici medievali in cui rinveniva parole ancora aderenti al motivo del “Verbo si è fatto carne”. E’ questo il motivo per cui annotava con solerzia le locuzioni popolari dei contadini toscani in cui si manteneva integro il raccordo alla vita ed alla realtà, e così in un brano intensamente lirico si esprimeva :“mi piaceva sentir discorrere il mio babbo, con un linguaggio ruvido come le zolle dei campi, ma spaccate le zolle dentro c’era l’oro che suonava, una parola di sole; lucida come uno zecchino. lo la ripulivo eppoi la sentivo cantare dentro la fantasia come il preludio di un’allodola”(20)
Nella vita che vola via in maniera incessante - “Sono io che fuggo inesorabilmente, io mendicante di eternità” (21) è tramite le parole del poeta che trova parziale adempimento il desiderio profondo dell’uomo di sottrarsi alla caducità dando una parvenza di eternità alle emozioni sottili e coinvolgenti della vita, difatti:
Umana sorte è di morire un poco
ogni giorno che vola,
ma la parola ha un volto come un fuoco
il suo calore, il suo profumo il fiore
lascia allora che cada ai tuoi ginocchi
e mi specchi così nella dolcezza
dei tuoi grandi occhi
un attimo ogni sera
(22).

Stando così la questione si comprende bene la richiesta del poeta nella bellissima poesia “Quando avverrà”:

Dove si attarda il giorno tra ramo e ramo

godono uccelli briciole di sole:
l’ora che trasmigra è la più vera. Lasciami, Signore, un tumulto di affetti

e di parole come in conchiglia musica di mare (23)

In fondo all’anima del poeta c’è in definitiva un solo pensiero, quello dell’eternità ed era questo che lo induceva a disprezzare quanto gli altri uomini amano e cercano. Giocando amabilmente sul suo aspetto così il nostro scrittore si presentava: “Non ho da vantare nessuna nobiltà... il trisavolo era un saltimbanco che viaggiava col carrozzone delle scimmie e dei pappagalli dal lago Trasimeno alla Toscana... (si ritiene che provenisse dal Montenegro, paese degli zingari) Da allora ricercai dentro di me, nel profondo dell’anima mia, un approssimativo paese d’origine.., ero certo, e non I’ ho mai smentito, di portare nel mio sangue l’irrequietudine del nomade.
Riscontro una inconfessata simpatia per tutto ciò che sa d’antiborghese, i suonatori ambulanti, gli accattoni, le persone fuori posto, i girovaghi, i pellegrini, i frati da cerca... preferisco il satanismo... di questi ingegriacci, di codesti santi falliti, al morbido epicureismo degli imborghesiti incapaci di bene e di male e per i quali non esiste riscatto”
(24). Ed infine nella parte terminale di questo scritto compendiava in essenziali pensieri i requisiti esistenziali che stanno sullo sfondo dell’arte e della esperienza poetica in particolare: “La novità in arte presuppone un’intima rivoluzione nell’uomo, una sofferenza, un dono o molti doni insieme acquistati: o egli è ricco del suo mondo spirituale e perciò vivo, o egli è povero, perciò morto... dalla morte non nasce l vita.., e l’arte è vita.., l’arte del nostro novecento si è dimostrata effimera e per tre quarti negativa, facendoci vedere quello che siamo; noi vogliamo mostrare quello che dovremmo essere”(25).


L’arte e la poesia sono “un dono d’amore” che nasce insieme da semplicità e sincerità di cuore:“la semplicità è dunque la dolce sorella dei primitivi, casta come l’acqua... ma è anche sinonimo di sincerità giacché esprime uno stato di stupore e lo stupore è del poeta e del bambino e per capire quello che è semplice occorre più spirito che per comprendere quello che è complicato.., una ricerca di semplicità in tempi smaliziati come i nostri è certo un buon segno”(26).


Con le parole di Betocchi contenute in una delle ultime lettere indirizzate all’amico senese sembra di poter concludere nel, modo più appropriato. Betocchi si era trovato a presiedere un premio letterario al quale aveva partecipato anche Idilio Dell’Era che, però, si era ben guardato dal fare pressioni sul vecchio amico per essere favorito in sede di valutazione. La correttezza e l’atteggiamento riservato furono molto apprezzati: “Tu sei stato così delicato da non sollecitarmi in alcun modo. La dolce umiltà è sempre la più cara e tu sei un poeta”(27).
Nel riconoscimento commosso di Betocchi trovava adempimento il desiderio profondo che aveva animato tutta l’esistenza di Idilio Dell’Era.

Alfredo Franchi

 

NOTE
(1) Lettere e documenti citati fanno parte del fondo degli scritti e dei manoscritti “Idilio DellEra” nella Biblioteca degli Intronati di Siena. Purtroppo al di là di qualche indicazione contenuta nei diversi contenitori, niente è stato catalogato con precisione per cui è materialmente impossibile dare informazioni più precise atte a facilitare il reperimento del testo utilizzato.
Lettera di Carlo Betocchi dell’8 giugno 1962:
Carissimo Dell’Era,
l’è una gran vergogna che risponda soltanto ora al dono affettuoso dei tuoi due bei libretti di versi Il canzoniere del fanciullo” e “Voci e lamenti”.
Scusami caro don Idillio, perdonami.
L’ho fatto proprio involontariamente e a causa del disordine delle cose mie che s’accavallano, s’accatastano, si soffocano le uno con le altre... E solo per caso, rimuovendo da un tavolo una massa di carte e di libri ho ritrovato così i tuoi due. Che ho letto stamani e mi commuovono per la dolcezza e il candore del canto, mentre le tue dediche affettuose non cessano di rimproverarmi.
Com’erano belli i nostri semplici tempi di tant’anni fa: ma la sincerità di quelle amicizie, credilo, è ancora il meglio che m’è rimasto profondo nel cuore e vorrei che tu pregassi per me che ne ho bisogno. I “trionfi”, come tu scrivi in una delle dediche, son buggerate: sono le care e silenziose amicizie, i cari e durevoli affetti che contano
Il tuo che si vergogna, aff. Betocchi
(2) Lettera di Carlo Betocchi del 13maggio 1953:
“Caro dell’Era, da Roma mi spediscono la tua datata 5 Apr... La leggo e te la punteggio (Se me lo permetterai) di risposte secondo il cuor mio. Davvero di risposte secondo il cuor mio, abbi pazienza fratello mio”.
E’ una lettera che non mi piace, ravvolta in un complesso di sconfitto che non sta bene né a te, né alla tua anima, né al tuo sacerdozio. Tu, un sacerdote! Tu, che se fossi venuto nella mia casa a Roma mi onoravi, ma sei anche un poeta: tuttavia, io per te sono un arrivato, un grande arrivato. Non mi far ridere. Tu prendi sul serio queste cose e allora penso che tu non sia un poeta: ma resti un sacerdote.
E trovo, scusami sai, trovo che Fasolo fa malissimo a farti una introduzione per un fascicolo di poesie. Fasolo è un cuor d’oro e io gli voglio un gran bene. Ma lui sa che per te l’introduzione non è nulla se non c’è l’editore. Ed ecco che invece di curarti ti fa ammalare di più. A te monta la febbre e allora tu mi dici che, se non ti sembra un accattonaggio, ti aiuti a cercare un editore. E intanto fai un accattonaggio. Tu non pensi da poeta, scrivi da poeta. Fratel mio, pentiti... Scrivi che io ti aiuti perché non vorresti deludere Fasolo col dover buttare tutto via, giacchè ti reputi un uomo fallito. Purtroppo non ne hai che una brutta malinconia, senza il dispiacere.
E’ un brutto sogno, Dell’Era mio. Caccialo da te. Fratello mio, io ti voglio molto bene e vedo garbatissimi versi tuoi pubblicati in qualche luogo spesso: ciò significa che tu fai come quello al quale un pruno gli doleva, e dal gusto che ci aveva, se lo levava e se lo rimetteva.
A Siena, se ci venissi, né ci son più venuto, sempre verrei a cercarti a San Francesco. Una volta ci venni e ti cercai. Passai dal Cantagalli e chiesi di te. A Lecceto, purché non sia troppo strapazzo, ci verrei più che volentieri... Dunque se non ti trovo un editore non sono un amico, ma un angelico parlamentare che ha per tutti promesse e sorrisi. Ma va là, caro Idilio. Sii santo. Chiedi al vescovo di farti lavorare, io l’editore non te lo trovo: sei per questo Idilio, tu, mio sacerdote meno uomo? Io dovrei allora trascinarti cosi a ludibrio, con evasive offerte. Mi da un grande dolore tutto questo. Respinto? Tu non sei respinto, sei amato, ma hai bisogno d’essere amato da qualcosa di più decente che il mondo che tu ami. Da’ retta al mio cuore. Scrivimi da galantuomo.
Ti abbraccia il tuo Betocchi.”
(3) Lettera di Geno Pampaloni del 26Aprile 1966:
“Caro Dell’Era,
purtroppo la Vallecchi non pubblica libri di poesie per ragazzi, e la pubblicazione del vincitore del premio Orvieto di quest’anno è un’eccezione.
Me ne dispiace, perché apprezzo molto, e non da ora, il Suo lavoro, ma le esigenze pratiche cui dobbiamo sottostare ci sono imposte in modo ferreo. Mi creda con rammarico e con stima
Suo Geno Pampaloni”.

(4) Lettera di Luigi Baldacci del 2 Maggio 1980
“Caro Idilio,
certo che mi ricordo la nostra giornata nella campagna senese. La sua conoscenza fu un dono”.
Ho letto la raccolta del povero e vi ho ritrovato tutta quella ricchezza umana e quella capacità di amare le cose e le creature che avevo intuito fin dal nostro incontro. Però questa affermazione potrebbe suonare ambigua, come se io dicessi che il suo libro è più ricco di umanità che di poesia. E non sarebbe vero. Lei poco si cura di essere in linea sul piano di una assoluta coerenza di linguaggio. Ogni tanto c’è l’eco di un poeta antico, non dissimulata, ma anzi candidamente riproposta. E ogni tanto c’è, di conseguenza, qualche arcaismo. Il quale però è in contrasto - ma non in dissidio - con una piena modernità di armonizzazione: penso all’azzardo analogico delle sue immagini, alla libertà delle sue rime. Tutto questo significa per me poesia ancor più di tanti esperimenti fatti con le carte in regola. “La raccolta del povero” è insomma un libro che arricchisce, come ogni documento autentico di povertà Cristo, che è sempre l’assoluto contrario della miseria.
di questo libro? Mi dispiace caro Idilio, ma non mi sarà possibile: per la semplice ragione che dopo anni, molti anni di milizia militante, io ho lasciato questo lavoro ingrato, che non gratifica nessuno. Mi riposo facendo il professore. Però questo libro lo tengo da parte per le occasioni di riepilogo. Grazie per i suoi auguri di Pasqua (che ‘io ricambio per la prossima, scusandomi dello scandaloso ritardo della mia risposta) e ringraziandola ancora
Mi dico suo affezionatissimo Luigi Baldacci


5) La sorte del Poeta, dal Fondo Idilio Dell’Era.
6) Lettera aperta a Giorgio Umani - FOGLIO Dl VIAGGIO -‘ dal Fondo ldilio Dell’Era.
7) Un male del secolo, dal Fondo Idilio Dell’Era.
 8) Ibid.
(9) Ibid.
(10) Ibid.
(11) Mi recherà ad Albisola, 1967, dal Fondo ldilio Dell’Era.
(12) Un male del secolo, op.cit.
13) Mi recherò ad Albisola, op.cit.
(14) Un male del secolo, op.cit.
(15) Ibid.
(16) Ricordo di Paolo Arcari, in “LA NAZIONE ITALIANA” del 17 Febbraio 1955, dal Fondo Idilio Dell’Era.
(17) Solitudine, dal Fondo Idilio Dell’Era.
‘(18) Da un fascicolo manoscritto di sei pagine numerate in cui Idilio Dell’Era delinea i momenti fondamentali della
sua biografia intellettuale e spirituale. La frase riportata si trova all’inizio della pagina 4:
“Era inutile chiedere alte filosofie e alle politiche la soluzione ai nostri problemi interiori: il Paese dell’anima era
li, quello che trovò Clemente Rebora, Giorgio La Pira

(19) “Siena paese dell’anima, resta con Assisi dolce rifugio agli spiriti pensosi e smarriti”, dal Fondo Idilio Dell’Era.

(20) Dal Fondo Idilio Dell’Era.
(21) Poesia manoscritta, dal Fondo ldilio Dell’Era:
“Sono io che fuggo inesorabilmente
io mendicante dell’eternità che chiedo
alla notte la sua porta velata
le rose e le rugiade
ritorneranno e il chiaro dei mattini
ma superati i confini dell’arcano,
anima, oh anima! Allora
di un’altra aurora troverai la sponda”
(22) DELL’ERA, Mendicante di eternità, Siena 2005, p19.
(23) lvi, p81.
(24) “Ed io povero coreano”, dal Fondo Idilio Dell’Era. Da “Vanto e rimprovero”:
“Amo i santi che non hanno fondato nessun ordine, gli artisti che non hanno impiantato nessuna scuola, i poveri che, come l’ombre dei muri, migrarono senza rumore, perché - dice Holderlin - il mortale difficilmente riconosce i puri”.
(25) Lettera aperta a Giorgio Umani.
(26) “Elogio della semplicità”, dal Fondo Idilio Dell’Era.
(27) Lettera di C.Betocchi, dal Fondo Idilio Dell’Era.

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Ultimo aggiornamento: 22-01-18