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Il Paese dell’anima di
Alfredo Franchi
‘Com’erano belli nostri semplici tempi di tant’anni fa... la sincerità di
quelle amicizie, credilo, è ancora il meglio che m’è rimasto profondo nel
cuore... i “trionfi” come tu scrivi in una delle dediche, son buggerate: sono le
care e silenziose amicizie, i cari e durevoli affetti che contano,
il tuo che si vergogna, aff.Betocchi’
Così terminava la lettera del poeta inviata ad Idilio Dell’Era nel giugno del
1962. Con poche essenziali parole ricordava all’amico gli anni del comune
impegno nella rivista ‘Il Frontespizio”, quando era nata la profonda amicizia
nutrita di sogni e di ideali da realizzare. Betocchi si scusa per il ritardo con
cui aveva risposto allo scrittore senese che, molto tempo prima, gli aveva
inviato due libretti di poesia che erano però scomparsi nella caotica “massa di
carte e libri” del suo studio e poi, per caso, erano stati ritrovati e subito
letti quasi ad espiazione della involontaria trascuratezza: “solo per caso
muovendo da un tavolo una massa di carte e di libri ho ritrovato così i tuoi due
che ho letto stamani e mi commuovono per la dolcezza e il candore del canto
mentre le tue dediche affettuose non cessano di rimproverarmi”.
Non si tratta di complimenti di maniera, ma di una valutazione critica che
coglie con esattezza aspetti non marginali della poetica di Idilio Dell’Era.
Tale riconoscimento acquista maggior valore ove lo si collochi nell’ambito della
corrispondenza intercorsa tra i due scrittori in cui non mancano momenti di
asprezza e di dura critica come nella lettera inviata da Betocchi nel maggio
1953(2) in risposta alla richiesta di Idilio Dell’Era di aiutarlo a trovare un
editore disposto a pubblicare una sua raccolta di poesie. Senza entrare nel
merito della controversia è significativo notare come il rapporto di amicizia
non escludeva l’estrema franchezza dell’espressione senza concessione alcuna
all’ipocrisia di velate parole come avviene in certo buonismo imperversante
nella nostra epoca.
Nel vasto e non catalogato archivio di Idilio Dell’Era e nella corrispondenza
intrattenuta con scrittori e critici più volte si trovano richieste di
recensioni critiche e di ospitalità per pubblicare non sempre accolte (3).
Particolarmente suggestiva la lettera scritta da Luigi Baldacci nel maggio del
1980 (4) in cui il critico nega con parole decise la recensione richiesta: “scrivere
di questo libro? Mi dispiace, caro ldilio, ma non mi sarà possibile: per là
semplice ragione che dopo anni, molti anni di critica militante, io ho lasciato
questo lavoro ingrato, che non gratifica nessuno... Però questo libro lo tengo
da parte per le occasioni di riepilogo”.
Nella parte iniziale della lettera peraltro, in maniera finemente dissimulata,
il critico aveva delineato in tratti essenziali la personalità poetica dello
scrittore senese per cui, in sostanza, aveva donato in dimensione epistolare
privata la recensione richiesta e negata in sede pubblica. Nelle note sparse da
Idilio Dell’Era intorno alla poesia lo scrittore ritorna di continuo sulle
condizioni esistenziali che scandiscono in vario modo tale avventura dello
spirito. Illuminanti in tale senso le sue parole intorno alla “Sorte del poeta”:
“Per quanto faccia il poeta si trova sempre in condizioni di disagio nella
società e di protesta contro il “mal seme di Adamo”: la sua, tra tutte le arti,
è la meno redditizia... Nel migliore dei casi la sua opera finisce nella storia
della letteratura o in uno scaffale di biblioteca che è pur sempre una cassa da
morto. Rinvivito, mille volte rinvivito in commenti e tesi di laurea, finirà per
essere analizzato brano a brano, per subire un processo che, le più volte, ne
sminuisce i pregi e il valore, quasi mai per essere capito e amato. Ma invidiata
ed invidiabile rimane ai poeti la libertà, chi se ne priva, ponendosi al
servizio o lasciandosi strumentalizzare, rinnega la sua natura”(5)
Esperienza di autenticità e di libertà la poesia e quindi necessaria sempre ed
indispensabile risorsa in epoca moderna in cui, per una sorta di voluttà
nichilistica e di un istinto di morte, si sono privilegiate le interpretazioni
atte a manifestare gli aspetti torbidi ed inquietanti della natura umana risolta
in maniera univoca in tali negative dinamiche. In una lettera aperta all’amico
Giorgio Umani così Idilio Dell’Era si esprimeva: “Non ti sembra, caro
Giorgio, che questo così detto dopoguerra sia una gran veglia funebre? Stiamo
assistendo alla morte del meglio di noi, della nostra civiltà e non riusciamo a
persuadercene... sarebbe il caso di dire che tramontato è il sole dello spirito,
il mondo più bello, e che nella notte di gelo rissano solo gli uragani... (la
poesia) presuppone un’intima rivoluzione nell’uomo, una sofferenza, un dono o
molti doni insieme acquistati: o egli è ricco del suo mondo spirituale e perciò
vivo, o egli è povero, perciò morto. Dalla morte non nasce la vita.., e l’arte è
vita. L’arte del Novecento si è dimostrata effimera e per tre quarti negativa,
facendoci vedere quello che siamo; noi invece vogliamo mostrare quello che
dovremmo essere”(6).
Dell’Era, riflettendo con acume sul malessere della sua epoca, riteneva che la
crisi della poesia e della scrittura dipendesse anche dall’equivoco che “lo
spirito, l’intelligenza, l’ingegno, il genio come del resto la santità siano
cose commerciabili’(7). Non era vero che tutto si poteva acquistare con il
denaro;; i valori dello spirito non erano disponibili nella transazione
economica. Nel processo degenerativo della scrittura fattore decisivo era stato
“l’aver asservito la letteratura alla politica”(8), come si era appunto
verificato nei regimi improntati sull’ideologia del totalitarismo nelle
variegate espressioni di destra e di sinistra quando, al contrario “l’arte ha
bisogno di essere disinteressata e spontanea”(9), in tal modo difatti l’artista
si svincolava da ogni condizionamento di natura psicologica e sociale. E qui
Dell’Era si apre al ricordo dell’epoca incantata de “Il Frontespizio” a cui
“collaborarono disinteressatamente pochi spiriti bene affiatati... senza
servilismi, tanto quanto bastò per essere fecondo e rimpianto”(10). Di tale
vicenda si trova una partecipe rievocazione in uno scritto del 1967: a distanza
di tanti anni si comprende meglio quanto è accaduto ed in una rievocazione
nostalgica si coglie, quasi liricamente, il significato di una emozionante
avventura spirituale “Quella fu per noi la stagione più fervida e cordiale,
auspice Piero Bargellini, al quale, prima che sia troppo tardi, i frontespiziai
superstiti dovrebbero tributare un omaggio di doverosa riconoscenza. Si era
giovani allora e soprattutto uniti. Poi la guerra ci disperse e oggi ci si conta
sulle dita, stupiti che la morte ci abbia così diradati. Ci pareva anche che
valesse la pena dì scrivere, far della poesia: la vita aveva più consistenza.
Potevamo esser malati di estetica, del bello stile o, se vogliamo, di
angelicismo: sarà perché, come ho detto, quella fu per me la stagione più bella,
sta di fatto che le pagine degli autori di quel tempo , dì Bargellini, di Lisi,
di Betocchi, di Pezzani, di Grande, di Barile, di Bugiani e di altri mantengono
tutta la loro freschezza ed incanto. Se dovessimo definire invece il ventennio
che ne è seguito, poche eccezioni fatte, dovremmo dirlo la dittatura del brutto
e della pornografia, gabellata per letteratura”(11).
Con tutto ciò secondo Dell’Era “non dobbiamo essere catastrofici’. Lo scrittore
che, per suo stesso riconoscimento, soffriva di un “romanticismo foscoliano e
funerario”(13) per cui risultava più emozionante visitare i luoghi in cui i
grandi poeti erano vissuti anziché incontrarli di persona, non si esauriva però
in una nostalgia morbosa e di maniera, convinto sempre della funzione
insostituibile della poesia per salvaguardare l’interiorità degli uomini di oggi
e di domani e nella speranza ribadita che non sarebbero mancati mai “quei
pochi, pochissimi poeti e artisti che non si lasceranno commercializzare”(14)..
Dell’Era, rimanendo costantemente nella prospettiva della eternità e non in
quella del tempo, ne coglieva con preveggenza gli aspetti più ambigui e
conturbanti destinati ad enfatizzarsi nello svolgimento della modernità quando
“per la libidine di notizie sensazionali si vomita tutto. Si mette tutto
sulla piazza”(15), determinando in tal modo la rarefazione o addirittura la
scomparsa di quella dimensione interiore fondamentale invece nella messa a punto
e nella conservazione della personalità. Non casualmente nelle sparse
riflessioni dello scrittore intorno al significato della letteratura e della
poesia, a più riprese, affiora l’elogio della solitudine, non come scelta che
renda estranei al tumulto della vita, ma come pausa necessaria della interiorità
per poi tornare tra gli uomini donando loro frammenti di verità e di bellezza.
Dell’Era
così affascinato da Siena, ne aveva in maniera sofferta colto tutti i limiti e
le ambiguità quando in una penetrante analisi dell’opera di Tozzi, per una sorta
di meccanismo faceva intravedere il suo rapporto problematico con la città
dall’aria “pettegola
e provinciale, scontrosa e angolosa”, nella quale, alla fine, lui stesso era
vivo e presente dappertutto meno che a Siena... (perché) Siena è un città fatta
così: livella e appiattisce. I suoi figli migliori se ne vanno, tentano, per
farsi un nome o una reputazione, altri lumi, città di più largo respiro”(16). Si
comprende pertanto, da tale angolatura, la predilezione di Dell’Era per la
solitudine, come condizione atta a salvaguardare l’esistenza dallo
sfilacciamento nella chiacchiera e nella banalità: “Amerò la mia solitudine
che si accende di aurore, di piccole cose soavissime a vedersi, anche se
dimenticassi il linguaggio degli uomini, hanno le creature una loro voce che fa
tremare di gioia e di meraviglia”(17).
E appunto rimanendo in tale condizione di vita che l’uomo conserva integro il
suo rapporto con la realtà nella sua dimensione infinita e nelle piccole cose:
niente è insignificante per chi sa rimanere in condizione di ascolto e di
attesa. La mancanza di parole atte a significare ciò che si contempla non
attenua l’intensità delle vibrazioni emotive, indicibili come tutto ciò che è
autentico ed irripetibile. Il riconoscimento dei limiti non implica però il
rifiuto del linguaggio che rimane pur sempre risorsa suprema dell’uomo. E
appunto per questo nella consunzione delle parole si attesta la radicale miseria
della modernità con i suoi “venditori di parole vane”. Ove la parola perda la
sua densità semantica la comunicazione si dissolve nel flusso nichilistico in
cui nessuno può donare e ricevere. Sul piano del linguaggio il vero ateismo lo
si ravvisa quando la parola, per un processo di interna consunzione e
logoramento, si è completamente dissolta sul piano del significato. Di tale
perverso andamento Dell’Era aveva colto tutto il rischio e la pericolosità e,
appunto per questo, nell’esperienza poetica tesa a salvaguardare la consistenza
delle parole, ravvisava l’ultima possibilità di salvezza, mentre “era inutile
chiedere alle filosofie e alle politiche la soluzione dei nostri problemi
interiori”(18), in quanto esperienze inadatte e incapaci di riportare l’uomo a
quel “paese dell’anima”(19), luogo epifanico di recupero e salvaguardia della
interiorità ed autenticità umana. E’ questo il motivo per cui Dell’Era era
lettore attento e partecipe dei mistici medievali in cui rinveniva parole ancora
aderenti al motivo del “Verbo si è fatto carne”. E’ questo il motivo per cui
annotava con solerzia le locuzioni popolari dei contadini toscani in cui si
manteneva integro il raccordo alla vita ed alla realtà, e così in un brano
intensamente lirico si esprimeva :“mi piaceva sentir discorrere il mio babbo,
con un linguaggio ruvido come le zolle dei campi, ma spaccate le zolle dentro
c’era l’oro che suonava, una parola di sole; lucida come uno zecchino. lo la
ripulivo eppoi la sentivo cantare dentro la fantasia come il preludio di
un’allodola”(20)
Nella vita che vola via in maniera incessante - “Sono io che fuggo
inesorabilmente, io mendicante di eternità” (21) è tramite le parole del
poeta che trova parziale adempimento il desiderio profondo dell’uomo di
sottrarsi alla caducità dando una parvenza di eternità alle emozioni sottili e
coinvolgenti della vita, difatti:
Umana sorte è di morire un poco
ogni giorno che vola,
ma la parola ha un volto come un fuoco
il suo calore, il suo profumo il fiore
lascia allora che cada ai tuoi ginocchi
e mi specchi così nella dolcezza
dei tuoi grandi occhi
un attimo ogni sera (22).
Stando così la questione si comprende bene la richiesta del poeta nella
bellissima poesia “Quando avverrà”:
Dove si attarda il giorno tra ramo e ramo
godono uccelli briciole di sole:
l’ora che trasmigra è la più vera. Lasciami, Signore, un tumulto di affetti
e di parole come in conchiglia musica di mare (23)
In fondo all’anima del poeta c’è in definitiva un solo pensiero, quello
dell’eternità ed era questo che lo induceva a disprezzare quanto gli altri
uomini amano e cercano. Giocando amabilmente sul suo aspetto così il nostro
scrittore si presentava: “Non ho da vantare nessuna nobiltà... il trisavolo
era un saltimbanco che viaggiava col carrozzone delle scimmie e dei pappagalli
dal lago Trasimeno alla Toscana... (si ritiene che provenisse dal
Montenegro, paese degli zingari) Da allora ricercai dentro di me, nel
profondo dell’anima mia, un approssimativo paese d’origine.., ero certo, e non
I’ ho mai smentito, di portare nel mio sangue l’irrequietudine del nomade.
Riscontro una inconfessata simpatia per tutto ciò che sa d’antiborghese, i
suonatori ambulanti, gli accattoni, le persone fuori posto, i girovaghi, i
pellegrini, i frati da cerca... preferisco il satanismo... di questi
ingegriacci, di codesti santi falliti, al morbido epicureismo degli imborghesiti
incapaci di bene e di male e per i quali non esiste riscatto”(24). Ed infine
nella parte terminale di questo scritto compendiava in essenziali pensieri i
requisiti esistenziali che stanno sullo sfondo dell’arte e della esperienza
poetica in particolare: “La novità in arte presuppone un’intima rivoluzione
nell’uomo, una sofferenza, un dono o molti doni insieme acquistati: o egli è
ricco del suo mondo spirituale e perciò vivo, o egli è povero, perciò morto...
dalla morte non nasce l vita.., e l’arte è vita.., l’arte del nostro novecento
si è dimostrata effimera e per tre quarti negativa, facendoci vedere quello che
siamo; noi vogliamo mostrare quello che dovremmo essere”(25).
L’arte e la poesia sono “un dono d’amore” che nasce insieme da semplicità e
sincerità di cuore:“la semplicità è dunque la dolce sorella dei primitivi,
casta come l’acqua... ma è anche sinonimo di sincerità giacché esprime uno stato
di stupore e lo stupore è del poeta e del bambino e per capire quello che è
semplice occorre più spirito che per comprendere quello che è complicato.., una
ricerca di semplicità in tempi smaliziati come i nostri è certo un buon segno”(26).
Con le parole di Betocchi contenute in una delle ultime lettere indirizzate
all’amico senese sembra di poter concludere nel, modo più appropriato. Betocchi
si era trovato a presiedere un premio letterario al quale aveva partecipato
anche Idilio Dell’Era che, però, si era ben guardato dal fare pressioni sul
vecchio amico per essere favorito in sede di valutazione. La correttezza e
l’atteggiamento riservato furono molto apprezzati: “Tu sei stato così delicato
da non sollecitarmi in alcun modo. La dolce umiltà è sempre la più cara e tu sei
un poeta”(27).
Nel riconoscimento commosso di Betocchi trovava adempimento il desiderio
profondo che aveva animato tutta l’esistenza di Idilio Dell’Era.
Alfredo Franchi
NOTE
(1) Lettere e documenti citati fanno parte del fondo degli scritti e dei
manoscritti “Idilio Dell’Era” nella Biblioteca degli
Intronati di Siena. Purtroppo al di là di qualche indicazione contenuta nei
diversi contenitori, niente è stato catalogato con precisione per cui è
materialmente impossibile dare informazioni più precise atte a facilitare il
reperimento del testo utilizzato.
Lettera di Carlo Betocchi dell’8 giugno 1962:
“Carissimo
Dell’Era,
l’è una gran vergogna che risponda soltanto ora al dono affettuoso dei tuoi due
bei libretti di versi Il canzoniere del fanciullo” e “Voci e lamenti”.
Scusami caro don Idillio, perdonami.
L’ho fatto proprio involontariamente e a causa del disordine delle cose mie che
s’accavallano, s’accatastano, si soffocano le uno con le altre... E solo per
caso, rimuovendo da un tavolo una massa di carte e di libri ho ritrovato così i
tuoi due. Che ho letto stamani e mi commuovono per la dolcezza e il candore del
canto, mentre le tue dediche affettuose non cessano di rimproverarmi.
Com’erano belli i nostri semplici tempi di tant’anni fa: ma la sincerità di
quelle amicizie, credilo, è ancora il meglio che m’è rimasto profondo nel cuore
e vorrei che tu pregassi per me che ne ho bisogno. I “trionfi”, come tu scrivi
in una delle dediche, son buggerate: sono le care e silenziose amicizie, i cari
e durevoli affetti che contano
Il tuo che si vergogna, aff. Betocchi
(2) Lettera di Carlo Betocchi del 13maggio 1953:
“Caro dell’Era, da Roma mi spediscono la tua datata 5 Apr... La leggo e te la
punteggio (Se me lo permetterai) di risposte secondo il cuor mio. Davvero di
risposte secondo il cuor mio, abbi pazienza fratello mio”.
E’ una lettera che non mi piace, ravvolta in un complesso di sconfitto che non
sta bene né a te, né alla tua anima, né al tuo sacerdozio. Tu, un sacerdote! Tu,
che se fossi venuto nella mia casa a Roma mi onoravi, ma sei anche un poeta:
tuttavia, io per te sono un arrivato, un grande arrivato. Non mi far ridere. Tu
prendi sul serio queste cose e allora penso che tu non sia un poeta: ma resti un
sacerdote.
E trovo, scusami sai, trovo che Fasolo fa malissimo a farti una introduzione per
un fascicolo di poesie. Fasolo è un cuor d’oro e io gli voglio un gran bene. Ma
lui sa che per te l’introduzione non è nulla se non c’è l’editore. Ed ecco che
invece di curarti ti fa ammalare di più. A te monta la febbre e allora tu mi
dici che, se non ti sembra un accattonaggio, ti aiuti a cercare un editore. E
intanto fai un accattonaggio. Tu non pensi da poeta, scrivi da poeta. Fratel
mio, pentiti... Scrivi che io ti aiuti perché non vorresti deludere Fasolo col
dover buttare tutto via, giacchè ti reputi un uomo fallito. Purtroppo non ne hai
che una brutta malinconia, senza il dispiacere.
E’ un brutto sogno, Dell’Era mio. Caccialo da te. Fratello mio, io ti voglio
molto bene e vedo garbatissimi versi tuoi pubblicati in qualche luogo spesso:
ciò significa che tu fai come quello al quale un pruno gli doleva, e dal gusto
che ci aveva, se lo levava e se lo rimetteva.
A Siena, se ci venissi, né ci son più venuto, sempre verrei a cercarti a San
Francesco. Una volta ci venni e ti cercai. Passai dal Cantagalli e chiesi di te.
A Lecceto, purché non sia troppo strapazzo, ci verrei più che volentieri...
Dunque se non ti trovo un editore non sono un amico, ma un angelico parlamentare
che ha per tutti promesse e sorrisi. Ma va là, caro Idilio. Sii santo. Chiedi al
vescovo di farti lavorare, io l’editore non te lo trovo: sei per questo Idilio,
tu, mio sacerdote meno uomo? Io dovrei allora trascinarti cosi a ludibrio, con
evasive offerte. Mi da un grande dolore tutto questo. Respinto? Tu non sei
respinto, sei amato, ma hai bisogno d’essere amato da qualcosa di più decente
che il mondo che tu ami. Da’ retta al mio cuore. Scrivimi da galantuomo.
Ti abbraccia il tuo Betocchi.”
(3) Lettera di Geno Pampaloni del 26Aprile 1966:
“Caro Dell’Era,
purtroppo la Vallecchi non pubblica libri di poesie per ragazzi, e la
pubblicazione del vincitore del premio Orvieto di quest’anno è un’eccezione.
Me ne dispiace, perché apprezzo molto, e non da ora, il Suo lavoro, ma le
esigenze pratiche cui dobbiamo sottostare ci sono imposte in modo ferreo. Mi
creda con rammarico e con stima
Suo Geno Pampaloni”.
(4) Lettera di Luigi Baldacci del 2 Maggio 1980
“Caro Idilio,
certo che mi ricordo la nostra giornata nella campagna senese. La sua conoscenza
fu un dono”.
Ho letto la raccolta del povero e vi ho ritrovato tutta quella ricchezza umana e
quella capacità di amare le cose e le creature che avevo intuito fin dal nostro
incontro. Però questa affermazione potrebbe suonare ambigua, come se io dicessi
che il suo libro è più ricco di umanità che di poesia. E non sarebbe vero. Lei
poco si cura di essere in linea sul piano di una assoluta coerenza di
linguaggio. Ogni tanto c’è l’eco di un poeta antico, non dissimulata, ma anzi
candidamente riproposta. E ogni tanto c’è, di conseguenza, qualche arcaismo. Il
quale però è in contrasto - ma non in dissidio - con una piena modernità di
armonizzazione: penso all’azzardo analogico delle sue immagini, alla libertà
delle sue rime. Tutto questo significa per me poesia ancor più di tanti
esperimenti fatti con le carte in regola. “La raccolta del povero” è insomma un
libro che arricchisce, come ogni documento autentico di povertà Cristo, che è
sempre l’assoluto contrario della miseria.
di questo libro? Mi dispiace caro Idilio, ma non mi sarà possibile: per la
semplice ragione che dopo anni, molti anni di milizia militante, io ho lasciato
questo lavoro ingrato, che non gratifica nessuno. Mi riposo facendo il
professore. Però questo libro lo tengo da parte per le occasioni di riepilogo.
Grazie per i suoi auguri di Pasqua (che ‘io ricambio per la prossima, scusandomi
dello scandaloso ritardo della mia risposta) e ringraziandola ancora
Mi dico suo affezionatissimo Luigi Baldacci
5)
La sorte del Poeta, dal Fondo Idilio Dell’Era.
6) Lettera aperta a Giorgio Umani - FOGLIO Dl VIAGGIO -‘ dal Fondo ldilio
Dell’Era.
7) Un male del secolo, dal Fondo Idilio Dell’Era.
8) Ibid.
(9) Ibid.
(10)
Ibid.
(11) Mi recherà ad Albisola, 1967, dal Fondo ldilio Dell’Era.
(12) Un male del secolo, op.cit.
13) Mi recherò ad Albisola, op.cit.
(14) Un male del secolo, op.cit.
(15) Ibid.
(16) Ricordo di Paolo Arcari, in “LA NAZIONE ITALIANA” del 17 Febbraio 1955, dal
Fondo Idilio Dell’Era.
(17) Solitudine, dal Fondo Idilio Dell’Era.
‘(18) Da un fascicolo manoscritto di sei pagine numerate in cui Idilio Dell’Era
delinea i momenti fondamentali della
sua biografia intellettuale e spirituale. La frase riportata si trova all’inizio
della pagina 4:
“Era inutile chiedere alte filosofie e alle politiche la soluzione ai nostri
problemi interiori: il Paese dell’anima era
li, quello che trovò Clemente Rebora, Giorgio La Pira”
(19) “Siena paese dell’anima, resta con Assisi dolce rifugio agli spiriti
pensosi e smarriti”, dal Fondo Idilio Dell’Era.
(20) Dal Fondo Idilio Dell’Era.
(21) Poesia manoscritta, dal Fondo ldilio Dell’Era:
“Sono io che fuggo inesorabilmente
io mendicante dell’eternità che chiedo
alla notte la sua porta velata
le rose e le rugiade
ritorneranno e il chiaro dei mattini
ma superati i confini dell’arcano,
anima, oh anima! Allora
di un’altra aurora troverai la sponda”
(22) DELL’ERA, Mendicante di eternità, Siena 2005, p19.
(23) lvi, p81.
(24) “Ed io povero coreano”, dal Fondo Idilio Dell’Era. Da “Vanto e rimprovero”:
“Amo i santi che non hanno fondato nessun ordine, gli artisti che non hanno
impiantato nessuna scuola, i poveri che, come l’ombre dei muri, migrarono senza
rumore, perché - dice Holderlin - il mortale difficilmente riconosce i puri”.
(25) Lettera aperta a Giorgio Umani.
(26) “Elogio della semplicità”, dal Fondo Idilio Dell’Era.
(27) Lettera di C.Betocchi, dal Fondo Idilio Dell’Era.
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